Ci sono libri che vanno bene sotto l’ombrellone o per un tragitto in treno. Altri che si agganciano dentro e lì rimangono. E scavano a lungo. È il caso de La vita agra di Luciano Bianciardi, uscito nel ’62 per Rizzoli e ristampato recentemente da Bompiani (Bompiani, 2011, pag 197, euro 9,90). L’attualità dei temi trattati fa dialogare questo romanzo con tutte le generazioni. Chi riesce a indignarsi, chi stenta a sbarcare il lunario con i tanti contratti precari, chi compie il gesto disperato di arrampicarsi su un traliccio per difendere la propria terra o il posto di lavoro, chi prova nausea verso l’indifferenza, si può ritrovare in queste pagine vecchie di 50 anni. Quanti oggi pensano che “la politica ha smesso di essere scienza del buon governo ed è diventata arte della conquista e della conservazione del potere”? C’è una sferzante critica (ante litteram) alla grande città spersonalizzata e spersonalizzante in cui l’agorà possibile è “il bottegone” ovvero il supermercato di allora, il centro commerciale di oggi.

In una Brera bohémienne, ben lungi da quella corrotta materialmente e moralmente della “Milano da bere” degli anni ’80, si aggira un anarchico toscano con propositi di vendetta. La sua intenzione è fare giustizia dopo l’eccidio di 40 minatori morti nella miniera di lignite avvenuta tempo prima nella piana di Montemassi. Morti bianche dunque, causate dalla sete di profitto, che tutto giustifica, che impone ritmi di produzione sempre più intensi, sempre più massacranti. Vendicarsi consiste nell’infiltrare grisù nel  “torracchione” sede amministrativa dell’Azienda. Le intenzioni sono chiare e dichiarate: “Non sono venuto per studiare la rotacizzazione della dentale  intervocalica” , la missione è un’altra. “(…) far saltare tutti e quattro i palazzi e, ipotesi secondaria, occuparli, sbattere  tutti fuori le circa duemila persone che ci lavorano (…) chine sul fatturato (…)”. Il protagonista lascia la sua regione, una moglie e un figlio e parte per Milano dopo aver visto i 43 cadaveri portati alla rimessa per essere ricomposti, la fila delle persone crescere, le bandiere rosse, Giuseppe Di Vittorio, i critici d’arte. Legge il cartello con cui l’Azienda informa i parenti delle vittime circa i risarcimenti. Non si può restare indifferenti. Nella città veloce, disumanizzata non trova sponde. Incontra una serie di “figurette”, Carlone il fotografo, Mario, Ugo, la vedova De Sio affittacamere e madre di sue ragazze malmaritate, con cui condivide e pratica l’arte della sopravvivenza con pochi “dané”. Lavora per un giornale a cui propone un articolo sui morti in miniera. Risposta cartacea, da intellettuale, ma la notizia è vecchia e il reportage non viene pubblicato.

Si innamora di Anna che fa vita di partito, decidono di convivere e lei dovrebbe cambiare sezione ma si scontra con la mastodontica burocrazia dell’apparato di partito. Lui deve mandare i soldi a casa, alla moglie Mara. Viene licenziato e traduce, tutto il giorno, con l’aiuto di lei, in maniera febbrile. Resta intatta l’esigenza di testimoniare e  va in stazione a vedere i “treni del sonno” da cui scendono gli operai con negli occhi la stanchezza del primo turno. Lui e Anna nel loro appartamentino arredato a rate sono assillati dai creditori che battono incessantemente alla porta. La loro vita è “agra”, non “dolce” come il dolce sciamare dei paparazzi di via Veneto alla ricerca di star e scoop, come nel coevo film di Fellini. Sono gli stessi anni. Gli anni Sessanta. Quelli del boom economico. Gli anni che hanno in nuce la latente e, a breve tracimante, rabbia di una generazione. Il romanzo è  anche un manifesto contro l’indifferenza della città, dove un ubriaco viene scansato dalla folla del sabato sera e il prossimo si fa vivo solo per battere cassa. Le pagine di Bianciardi non possono lasciare indifferenti. Il finale è aperto? O piuttosto il sonno in cui scivola il protagonista è una sorta di amara rassegnazione? È un sonno che annulla tutto. A più di 50 anni di distanza la situazione sembra identica: generazioni senza futuro, gesti isolati dettati dalla rabbia, una politica che non riesce a dare risposte. Tutto ciò fa di Bianciardi un ironico, isolato narratore.